Japan, visions of China

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mr harlot
view post Posted on 24/2/2010, 19:58




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Sarà che nell'ultimo periodo mi son creato le condizioni d'ascolto ideali per riapprezzarli, sarà che ultimamente le sonorità synthetiche mi stanno trasformando in un androide asessuato (impresa non troppo difficile, peraltro), sarà che dio è cane, fatto sta che nell'arco di quest'ultima settimana, come forse scontata risultante di tutti questi fattori, i Japan, dopo i primi, timidi ascolti risalenti a non ricordo quante stagioni or sono, hanno finalmente spalancato le porte del mio tenero cuoricino, guadagnandosi un amabile posto al sole nel mio ambitissimo pantheon personale delle bèndz, e David Sylvian ha potuto proseguire la scalinata verso il primo mobile, tra i privilegiati ranghi dei miei cantanti preferiti di sempre, con quella sua personalità schiva, dimessa e lontana dalle luci dello show biz, benchè paradossalmente i Giappone abbian raggiunto il successo proprio grazie al dilagare del fenomeno synth-pop dei primi, gloriosissimi Eighties. Ebbene sì, gruppo e personaggi immensi, come del resto vi troverete ad ammettere anche voi stessi quando apporrete per la prima volta l'orecchio a quella perla immortale del pop inglese che è Tin Drum, apice artistico del loro operato, un coacervo di creatività e ispirazione che blabla ecc.; rallentando, ho volutamente accennato poco sopra a diversi personaggi, benchè, e dio mi è testimone, ne abbia precedentemente citato solo Uno (con la U maiuscola, però). Per la gioia della profonda perplessità di quei pochi che si stanno ancora scervellando in proposito (o che stanno semplicemente ancora leggendo), affermerò altezzosamente che l'altro motivo per cui ho aperto questo thread- sperando ingenuamente che in breve tempo non diventi mesto ritrovo di balle di fieno rotolanti e carcasse di animali morti- è che magari ai negri proggaroli che abitano il foro sarebbe potuto interessare di conoscere la carriera di uno dei loro idoli- parlo di Riccardo Barbieri- prima che questi intraprendesse il lieto e fruttuoso sodalizio col biondocrinito leader dei Porcupine Tree. In realtà, per l'appunto, il buon Barbieri ha iniziato la propria avventura nel musicale a certi livelli militando proprio in questa gloriosa formazione composta per lo più da veri e propri fenomeni; oltre ai due testè proposti, sulle cui doti non dovrebbe esser necessario esplicar nulla (ok, che diamine: ugola rara, rarissima il buon David, capace di inebriare i pezzi cui presta la propria voce di una suadente malinconia e di stemperarla al contempo in un inebriante ed avvolgente fluire di emozioni e pelli d'oca assortite, specie nei brani in cui il suo discorrere si risolve in un sommesso soliloquio; ricercatore di suoni doc invece il buon Barbieri, in grado di tenere da solo pezzi interi e di tirar fuori dal proprio cilindro proprio nei Japan alcune tra le sue "sonorità" migliori, ascoltare il singoloGhosts per capire di cosa sto parlando), la sezione ritmica, tipica di una formazione rock, è occupata dall'IMMENSO fretless di Mick Karn e dal solido drumming di Steve Jansen (fratello di Sylvian), più una chitarra, relegata ad un ruolo di secondo piano nell'economia del sound, nelle mani di Rob Dean. Rendendomi solo ora conto di aver già buttato giù un discreto papiro e non aver al contempo detto quasi una sega della band in questione, provo a presentare il resto, per la gioia di tutti, in maniera non frettolosa e raffazzonata ma altresì essenziale, o almeno ecco, l'idea è questa.
Sostanzialmente i Japan, moniker per la cui accezione si presenta subito una duplice etimologia, intesa sia come riferimento alla ricerca sonora di chiara ascendenza orientale all'interno del loro sound, sia come interessamento al Giappone della seconda guerra mondiale come regime perfetto e ordinato (non dovrebbe stupire troppo quest'ultima, dato che la new wave è piena fino a scoppiare di riferimenti alla seconda guerra mondiale e a ciò che ne è conseguito, argomento interessante che potrà esser discusso -seh- in separata sede), hanno incarnato, nei primi anni Ottanta, una delle sfaccettature più intriganti e originali del synthpop, unendo al classico estetismo stile dandy derivato dalla fertile stagione del glam inglese e dai New York Dolls (lo stesso Sylvian prende il suo nome d'arte proprio da uno dei rampanti membri di questa simpatica compagine americana) e al ricorso ai suoni sintetici che di lì a poco conosceranno il loro massimo apice, nonchè sdoganamento, una componente etnica che li rende tra i più fulgidi esploratori di quello splendido e mai troppo glorificato fenomeno di sposalizio del rock con sonorità fino ad allora estranee ad ambiti anglo-americani (Talking Heads, Pop Group, il secondo Eno, il Gabriel solista, ecc.) che compone uno dei più straordinari tasselli del mosaico post-punk. Per quanto i primi dischi (ne hanno incisi cinque, quelli di cui vi vado a tesser le lodi però son solo due, per ora, ergo potete tirare un meritato sospiro di sollievo) vengano bollati come un banale tentativo di imitazione di Roxy Music e compagnia bella, i baldi giovani in questione riescono con gli ultimi due parti, rispettivamente targati 1980 e 1981, a proporre una sintesi di suoni tanto originale quanto dannatamente e semplicemente piacevole ed evocativa e bella. Complice un viaggio in Oriente e il conseguente incontro con Ryuichi Sakamoto della Yellow Magic Orchestra, rampante personalità musicale con cui stringeranno un lieto sodalizio artistico, i ragazzi vengono infatti irrimediabilmente influenzati dalle sonorità orientali e dalle canzoni folk del luogo, elementi che troveranno prima spazio in forma di timidi accenni nel quarto lavoro, quindi di definitiva integrazione e maturità nel quinto e ultimo album, appena prima dello scioglimento. Infilati forse troppo frettolosamente nel filone New-Romantic, i Japan sono sì lo straordinario gruppo che ha proposto nell'intrecciarsi dell'elastico basso funky di Karn, dei tappeti atmosferici dei synth di Barbieri e nelle soluzioni orchestrali e sovente lievemente jazzate arrangiamenti eleganti, sfarzosi per quanto assolutamente mai barocchi, ma sono soprattutto il mezzo attraverso il quale Sylvian ha potuto, oltre che regalare all'ascoltatore una voce splendida, mettere in musica i propri dubbi, le proprie angoscie, in un percorso personale che lo porterà, all'apice della propria carriera solista, a concretizzare le timidezze confidenziali già sparutamente mostrate con i Japan nel suo lavoro più essenziale e personale, quello in cui più e meglio di tutti gli altri riesce a mettere a nudo la propria personalità e a tentare di esorcizzare i propri demoni (Secrets Of The Beehive, di cui parlerò poi), demoni da ritracciare in un conflitto individuo-società che il buon David, cresciuto in un malfamato quartiere londinese, ha tentato di superare, o quantomeno di mistificare mascherandosi dietro la stesura del suo tipico make-up bianco cadaverico.
Senza più indugiare, elenco i must have che dovrebbero presenziare nel vostro ipod/stereo/grammofono per almeno qualche giorno:

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Gentlemen Take Polaroids (1980)

L'apertura è affidata alla title-track, un elegante saggio di come una squisita ed esemplare abilità tecnica possa sposarsi sapientemente con il buon gusto e lasciarsi andare, in un turbinio groove di gommosità funky e drumming quadrato, ad una spiccata sensibilità pop, condotta per mano dalla soave sensualità dell'ugola di Sylvian e dalle calorose atmosfere di Barbieri, che riescono a rendere caldo un sound che per sua stessa natura nasce freddo, e arricchita da arrangiamenti di fiati ed orchestra, la classica ciliegina sulla torta. Canticchiando il ritornello dell'opener per tutta la rimanente durata del disco vi ritroverete in men che non si dica, amorevolmente avvolti in parti uguali dalla contagiosità del groovy e dalla sobria perfezione con cui ogni minimo elemento melodico e ritmico riesce sapientemente ad aggirare lo spettro dell'eccessiva ridondanza, a lambire le note iniziali della conclusiva Taking Islands In Africa, duetto per tastiere e voce composto con la collaborazione del buon Sakamoto . Tra le righe, i primi spunti del sound orientale che troverà pieno compimento nel lavoro successivo. Una perla.


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Tin Drum (1981)

Se Gentlemen era nella sua maestosità pop una prova generale, un timido abbozzo di pennellate sonore atte a ricercare e dipingere una realtà, quella orientale, a noi relativamente lontana, è solo un anno dopo che la maturità artistica del gruppo, raggiunto il pieno compimento, permette alfine ai Nostri di mettere su tela quel perfetto connubio tra due mondi distinti (e distanti) che porta alla realizzazione di uno dei dischi pop più suggestivi di sempre. Ascoltare Tin Drum equivale a passeggiare nelle risaie, ad udire dei lontani tamburi dei nativi risuonare indisturbati da qualche parte nella giungla, lontani. Echi d'oriente d'altronde traspaiono sin dalla copertina, raffigurante un Sylvian intento a magiare del riso con una foto di Mao alle spalle, una chiave di lettura per quello che può essere inteso come un vero e proprio concept sui paesaggi, le tradizioni e i profumi della Cina. Tastiere fortemente 'speziate' e le solite architetture gommose dello squillante basso di Karn si ergono a pilastri di monumenti sonori dall'impalcatura più minimale rispetto al disco precedente, che riescono ad avvolgere in un'atmosfera estremamente evocativa senza mai scadere nella mera invadenza. Perfetto dalla prima all'ultima nota, questa osmosi tra culture trasposta in musica trova i suoi punti più alti nell'opener, perfetto sodalizio iniziale tra le due direttive, groove e sapori orientali, che caratterizzeranno il lavoro fino alla fine, nella particolare Ghosts, capolavoro assoluto di Barbieri, che delinea un'atmosfera spettrale, stemperata immediatamente dall'intromissione del soliloquio di Sylvian, intento in un colloquio con i propri moti interiori, in Canton, dove un tipico motivo folk cinese viene trasposto nei tasti di Barbieri, e nelle superbe Visions Of China e Cantonese Boy, per chi scrive l'act pop più riuscito del lotto.
Una durata umana rende ancor più fruibile un disco consigliato a chiunque volesse dilettarsi nell'ascolto di uno dei punti più alti raggiunti dalla new wave, o semplicemente provare delle sonorità un pò diverse e maledettamente suggestive.


Chiedo scusa per il becero copia e incolla, ma ieri per circostanze rampe m'è riapparso in fulgido ascolto il basso di Mick Karn e non potevo esimermi dal rispolverarli, :wub: . Tra l'altro dovevo inserire anche i dischi solisti di Sylvian, dio pane. Vedrò di farmeli ripassare tra le orecchie il prima possibile onde poterli offrire come gustoso surplus.
 
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Gonzus
view post Posted on 24/2/2010, 20:07




Gran bel gruppo.
Gentlemen Take Polaroids è il mio preferito per via della sua natura più catchy, ma anche Tin Drum è un gran bel lavoro, eclettico ed elegantissimo.
Ai Japan però preferisco di gran lunga il Sylvian solista, specialmente per quel capolavoro che è The Secrets Of The Beehive senza dimenticare Brilliant Trees, ancora legato alle sonorità dei Japan, e l'ultimo Manafon, interessantissimo connubio di avanguardia e cantautorato.
 
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view post Posted on 28/2/2010, 03:46
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最終からの人生の旅路

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Oh Gonzo hai scoperto gli Wire? GRANDE.

Japan imperdibili e David Sylvian una delle voci più indimenticabili della storia del rock. Scusate ma ora non mi dilungo di più ché sono appena tornato e son quasi le 4.
 
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Gonzus
view post Posted on 6/1/2011, 12:08




It's with profound sadness that we have to inform you that Mick finally lost his battle with cancer and passed away peacefully at 4.30pm today, 4th January 2011 at home in Chelsea, London. He was surrounded by his family and friends and will be deeply missed by all.

R.I.P.



 
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mr harlot
view post Posted on 6/1/2011, 17:05




Cane dio.
RIP.



 
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A.Voronin
view post Posted on 16/1/2011, 13:25




CITAZIONE (mr harlot @ 6/1/2011, 17:05) 

Prima o poi sarebbe successo. Cane dio veramente.


 
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