Dal momento che in questo thread aleggia la timida presenza di svariati
russofili mi permetto, facendo leva sul solito piglio sbarazzino dell'intellettuale da bar sport, di portare per un attimo i riflettori su un capolavoro spesso sfuggito anche agli occhi dei più avidi cartofagi (almeno per quel poco che ho avuto modo di appurare), e la cui lettura mi sento banalmente di consigliare più di ogni altra cosa a chi (tutti, quindi) soffre o ha sofferto più o meno saltuariamente di accidia in stato terminale, celestiale sintomo che al termine dell'ultima pagina del rilegato di cellulosa in questione sarà oggetto di accurate revisioni e riflessioni da parte del fruitore il quale durante le circa 500 scorrevoli pagine non si sarà intrattenuto nel rimirare farfalle, e che inoltre, in quanto croce e delizia più o meno universale, contribuirà non poco al già di per sé sicuro processo di affezionamento al protagonista della vicenda:
(1859)
Oblomov è la storia di
ciò che sarebbe potuto essere se, di una vita che tale non è, in quanto il suo sbocciare viene saldamente tenuto a freno da un pervicace ed ostinato rifiuto nei confronti dei frenetici ritmi della stessa, in una continua e pedissequa lotta del senziente tra richiami al dovere, sospesi e abbandonati in vaghi e puntuali rimandi che difficilmente sfoceranno in un concreto compimento (gli
ancora cinque minuti noti a tutti) e amati abbandoni alla più completa inazione, per una (non) tenzone in cui il divano funge da campo di battaglia e il sonno si erge a unico e vero vincitore. Quotidianamente crogiolato nelle reminiscenze di una passata esistenza ideale, in cui la semplice azione è sinonimo di distopia, il pacioccoso protagonista della vicenda, Il'ja Il'Ic Oblomov, residente a Pietroburgo e tenutario di una cospicua proprietà in quel di Oblomovka -la valle incantata dell'infanzia oggetto dei nostalgici vagheggiamenti di cui sopra-, spende le sue giornate in una stanza d'appartamento nel centro della capitale russa in pisolini pomeridiani e labili pensieri rivolti alla futura risoluzione di piccole noie, tra letture rigorosamente a metà di libri ormai impolverati e battibecchi con il fedele servo Zachar, altro alfiere del trasandato di cui il padrone non può fare a meno alfine di svolgere quelle minime ma fondamentali movenze giornaliere che contemplino un breve distacco dalla tanto amata posizione orizzontale, dall'infilarsi la vestaglia al far sapere a importuni conoscenti venuti in visita che non si è in casa. Di animo cristallino e dotato della più amabile ingenuità, Oblomov si staglia pigramente a paradigma ed eroe di chi, concedendosi intervalli di tempo spesi a contemplare il nulla anzichè a nutrirsi di cibo per lo spirito, rifiuta inconsciamente di accondiscendere, seppur magari temporaneamente, al forsennato incedere dell'esistenza, opponendo e preferendo ad un tormentoso, reiterato e in definitiva inutile affaccendarsi una vita di totale immobilità, fisica e mentale. Come una ricerca della valle incantata, solo senza marcia (questa la dovevo infilare da qualche parte, pardon).
Scaruffi mode off.